E, nelle città, pur sottoposte ai bombardamenti, le stazioni della metropolitana trasformate in rifugi, con tram e filobus che continuano a circolare per offrire un prezioso servizio alla popolazione (mentre da noi basta una festa di quartiere o il capriccio di un assessore per interrompere le corse, magari per settimane). “Business as usual” allora? Non proprio. Questa guerra, come tutte quelle che l’hanno preceduta, lascerà pesanti strascichi sulle infrastrutture.
E ci vorranno molti anni – ed ingenti capitali – per ripristinarle. Già la Prima Guerra Mondiale aveva visto le ferrovie protagoniste dello sforzo bellico. Ma aveva altresì agito come potente volano per lo sviluppo dell’aeronautica e dei veicoli su gomma.
Durante il Secondo conflitto, vent’anni più tardi, la supremazia era passata ai bombardieri, alle portaerei ed ai panzer della blitzkrieg. I treni sembravano confinati al triste ruolo di tradotte per i fanti o, peggio, di convogli dei deportati verso i campi di concentramento.Le distruzioni furono ingenti, in gran parte dell’Europa ed in Estremo Oriente, ma, cessate le ostilità, la ricostruzione fu relativamente veloce, perché il treno era ancora un vettore insostituibile.
Se la Seconda Guerra Mondiale fosse scoppiata negli anni Sessanta, all’apice dello sviluppo della motorizzazione, non tutto sarebbe stato ripristinato. Anzi, in certi con- testi, è successo proprio questo. Basta girare per l’Italia Centrale e si incontrano ancora resti di linee – la Pergola-Fermignano, la Fossalto di Vico-Umbertide-Arezzo, la Rimini-San Marino, solo per citarne qualcuna – che non si sono più riprese dai tempi della linea Gotica. E anche la ricostruzione è avvenuta riattando lo stato precedente, senza cogliere l’occasione per innovare i tracciati. Sarà così anche in Ucraina, nazione molto povera, che pure, dopo il collasso sovietico, aveva ammodernato decentemente i propri trasporti? Nel 2017 le grandi stazioni di Kiev, Odessa, Kharkiv, Dnipro – quelle che adesso vediamo nelle corrispondenze degli inviati – risentivano certo dell’architettura da realismo socialista, ma erano tutto sommato funzionali ed accoglienti (non proprio efficienti, ché l’abitudine burocratica agli sportelli si percepiva, come da noi, del resto). Le scale mobili della metropolitana – a Kiev ci sono stazioni profondissime, anche 100 metri – funzionavano discretamente (a Roma, anche senza bombardamenti, basta il passaggio di tifosi o il fallimento di un’impresa di manutenzione per metterle fuori uso per mesi). Si dice che, per la prima volta dopo oltre settantacinque anni, la guerra ha fatto la ricomparsa in Europa. Mica vero.
Dei conflitti che hanno disgregato la Jugoslavia per una decade, facendo un numero di vittime esponenzialmente superiore a quello ucraino (almeno per ora) non ce ne siamo accorti? Eppure erano alla porta di casa, con la sola Slovenia, relativamente risparmiata, a fare da cuscinetto con il suo territorio profondo pochi chilometri, in modo da non percepire le raffiche di kalashnikov sul lungomare di Trieste. La verità è che avevamo girato la testa dall’altra parte.
Anch’io per lunghi anni non mi sono fatto vedere da quelle parti. Eppure nel 1981 Sarajevo mi era sembrata una città mitteleuropea, seppur all’ombra dei minareti.
Ancora nel 1987, quando attraversai i Balcani in treno da Istanbul a Venezia, si potevano incrociare tra Belgrado e Lubiana i convogli di turisti diretti in Grecia con l’auto al seguito caricata a Monaco di Baviera.
Quando sono tornato nel 2001, niente più treni diretti. In compenso posti di blocco in frontiera tra Slovenia e Croazia a tagliare in due la penisola istriana. A Osijek, dal balcone della camera d’albergo al primo piano sembrava quasi di sfiorare il pantografo del tram tornato a circolare. Ma le pareti degli edifici erano crivellate di colpi. Idem a Sarajevo, lungo il vialone che dalla zona termale porta in centro, dove i cecchini si esercitavano sparando a qualsiasi cosa si muovesse. No, la guerra non è un buon affare per le ferrovie, neanche se i treni la fanno da protagonisti. Se poi sono soltanto fragili comparse, rischiano di non tornare più.
Ancora nel 1975 si poteva viaggiare su una carrozza diretta da Istanbul, stazione asiatica di Haydarpasha, fino a Beirut. Prima ancora si poteva andare in treno fino al Cairo, ma la creazione dello stato di Israele aveva già interrotto la linea costiera.
Poi arrivò la guerra civile tra Maroniti, Drusi e Palestinesi e in Libano – già considerato la “Svizzera del Medio Oriente” – oggi il treno non c’è più. Stessa sorte rischiano le ferrovie siriane, con la guerra scatenata dalla convinzione di poter esportare la democrazia a Damasco. Nello Sri Lanka del 1983 la guerra civile era già cominciata, ma i treni circolavano regolarmente. Non verso nord, però, visto che Jaffna era in mano ai separatisti Tamil.
La linea è stata poi riaperta, ma solo poco tempo fa. Certo, ci sono stati conflitti “a bassa intensità” che si potevano sfiorare, senza esserne coinvolti. Nel 1977 mi capitò di viaggiare in treno da Dublino a Belfast. La capitale irlandese sembrava una tranquillissima città di provincia. Sul rapido che faceva la spola col Nord sedevano persone apparentemente spensierate, ma, prima della frontiera con l’Ulster, scesero quasi tutti. Rimase seduta davanti a me solo una ragazza che mi indicò il terrapieno da cui ogni tanto gli indipendentisti dell’Ira prendevano di mira i vagoni. Penetrando nella periferia di Belfast si potevano distinguere i quartieri unionisti, pavesati di bandiere britanniche, da quelli cattolici: “no flags, no Union Jack”.
Sceso nel capoluogo nord irlandese, volevo attraversare la città a piedi per raggiungere la stazione di Larne e poi imbarcarmi per la Scozia. Ma un bobby fu inflessibile e mi costrinse a prendere il taxi.
Al tempo della Guerra Fredda, l’Europa era divisa dalla Cortina di Ferro. Ho fatto a tempo a valicarla alcune volte. In treno ovviamente. A Berlino si poteva utilizzare la metropolitana dell’Ovest, che attraversava il centro nella DDR. C’erano stazioni abbandonate da decenni e presidiate dai Vopos con pistole e cani lupo per controllare che nessuno salisse o scendesse. Ma la percezione più forte della separazione del nostro continente in blocchi contrapposti la provai tornando da Praga, a fine agosto 1986. Avevo fatto una digressione fino a Karlovy Vary, per poi riprendere il treno internazionale nella stazione di confine a Cheb (Eger in tedesco). Dopo un accurato controllo dei passaporti, salii in vettura e mi accorsi che ogni porta era presidiata da un mi- litare col mitra.
Il convoglio viaggiò a bassa velocità fino al punto esatto di confine (contrassegnato da cavalli di Frisia e filo spinato, non da un muro come a Berlino). Allora i militari balzarono a terra, con le armi rivolte verso le vetture. Poi si chiusero le porte e il viaggio poté continuare il territorio tedesco. I passeggeri abituati a spostarsi in aereo, vettore già allora prevalente nei viaggi internazionali, queste emozioni non le hanno percepite.
Ci sarebbe voluto molto tempo per ricucire quegli strappi nel cuore dell’Europa. Sono state riaperte dopo decenni linee spezzate dalla Cortina di Ferro. A Berlino le stazioni murate sono state riaperte e i tram, la cui rete era rimasta confinata nella parte orientale, sono tornati a percorrere alcune strade di quella che era Berlino Ovest. Solo un occhio ben attento, ormai, può identificare l’antica linea di demarcazione. E quella era solo una “Guerra Fredda”, che, nonostante momenti di acuta tensione, non degenerò mai in uno scontro aperto. Questa in Ucraina, invece, è un conflitto vero e proprio, che può cronicizzarsi in una lunghissima guerra civile. Senza considerare i rischi di degenerazione nucleare.
Anche non volendo addentrarsi nelle ragioni che stanno alla base dello scontro, appare chiara l’assurdità nel dare la parola alle armi. L’abate di Talleyrand avrebbe detto: “è peggio di un crimine, è un errore”. Meno cinico e più lapidario, Papa Francesco ha definito la guerra “una pazzia”.
Massimo Ferrari
*L’articolo è stato pubblicato su “Mobility Magazine” n. 329 del 10 marzo 2022
**Foto di Kris Møklebust da Pexels